Riflessioni sulla tristezza e gioia


Maria, alle nozze di Cana, suscita il primo miracolo di Gesù. È l’unica volta in cui i Vangeli ci riportano l’intervento della Madre di Dio che chiede al Signore di operare un prodigio. Forse ce ne saranno stati altri, ma nei Vangeli non figura. Come mai, con tutti quei “poveri” che anche all’epoca soffrivano per le varie infermità di cui erano afflitti, la Madre del Signore si preoccupa di una cosa che potremmo considerare poco importante?

“Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea, e c’era la Madre di Gesù”.  Giovanni ci presenta così Maria, senza il suo nome, ma con la sua relazione con il Figlio: “la Madre di Gesù”. La sua presenza alle nozze è la partecipazione ad un avvenimento familiare cui tutti i parenti sono invitati. Il matrimonio è la festa degli sposi, di tutti i parenti che si succedono durante un’intera settimana di festa attorno agli sposi. Con Gesù ci sono alcuni suoi discepoli e con Lui la “discepola” prediletta: la Madre Sua.

Maria, la Madre, prende la parola e rivolgendosi al Figlio gli espone un fatto concreto: non hanno più vino. Queste parole esprimono tante cose e provengono dal cuore premuroso di una giovane mamma: Maria è preoccupata dal fatto che sta venendo a mancare il vino, simbolo della gioia, e che quindi gli invitati alla festa sarebbero diventati delusi e tristi, la gioia, quella gioia, potrebbe spegnersi. Il vino che manca improvvisamente: la festa sarebbe stata rovinata.

La Madonna si preoccupa della gioia che potrebbe venire a mancare, perché l’organizzazione umana era insufficiente per mantenerla fino alla fine della festa. Suo Figlio poteva intervenire e Lei, che lo cono-sceva bene, lo chiede con fiducia. Maria confida pienamente nel Figlio e la sua risposta ai servitori sarà: fate quello che Lui vi dirà”.

Maria sapeva e vuole fare comprendere anche a noi, che Dio desidera la nostra gioia e si prodiga perché la riceviamo e  la conserviamo. Questo fatto deve farci riflettere.

I servi, ubbidendo ai comandi del Signore, diventano servi della gioia che Lui può suscitare anche in condizioni sfavorevoli e che può mantenerla. Noi che servi siamo? Ci rendiamo conto che, se facciamo tutto QUELLO CHE LUI DICE, diventiamo servi della GIOIA che Lui dona con sovrabbondanza? I servi servivano i commensali e , similmente noi, serviamo i fratelli, quindi è nel servizio che si rende visibile l’Opera di Dio. L’amore a cui siamo chiamati è sempre servi-zio.

La parabola sembra insegnare che solo i servitori si accorsero del miracolo avvenuto o, perlomeno, se ne accorsero per primi. Anche questo deve farci riflettere sul fatto che anche noi, che siamo figli di Dio, dovremmo avere i Suoi Pensieri e i Suoi Desideri, cioè desiderare e fare il possibile perché i fratelli abbiano la gioia. In questo senso dovremmo prodigarci per alleviare, in quel che ci è possibile, le loro sofferenze, prevenire le loro necessità, regalare anche solo un sorriso, quando non abbiamo nient’altro da offrire. In questo modo possiamo portare nel mondo il Sorriso di Dio, del nostro Dio che è Immensamente Felice, che desidera che anche i suoi figli siano felici. Possiamo essere certi che, quando con retta coscienza ci adoperiamo per la felicità del prossimo, siamo nella Volontà Divina e che Dio opererà per mezzo nostro e noi vedremo i prodigi del suo Amore e ce ne rallegreremo. Così, occupandoci della gioia altrui, troveremo la nostra gioia. La gioia vera nasce dall’amore operoso che diventa servizio.

Giovanni 2 al versetto 11 riporta: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”

Il Signore manifesta la sua gloria quando dona la gioia e attira le anime a Sé.

Un’altra osservazione è che, se Dio vuole la nostra gioia e si prodiga perché l’otteniamo, come mai noi, e dico noi cristiani, siamo spesso tristi? Come mai accettiamo le contrarietà della vita solo perché non possiamo fare altrimenti e mostriamo una rassegnazione che a volte perde anche la speranza della gioia eterna? Eppure ogni essere umano cerca la gioia e la cerca tutta la vita, come fosse scritto nella sua stessa natura. E così è, perché siamo stati creati per la felicità. Le nostre sofferenze dovrebbero essere vissute nella gioia e con vi-va fede in Lui.

Gesù, quando incontrò i sofferenti del suo tempo, chiese loro la fede in Lui e li guarì immediatamente, donando loro la gioia della guarigione, senza attese e senza rimproveri.

La domanda rimane: come mai non riusciamo a vivere la gioia della Risurrezione di nostro Signore avvenuta più di duemila anni fa? Come mai non riusciamo a rimanere stabilmente alla Sua Presenza? Perché Lui è Gioia e noi, talvolta, sembra che amiamo crogiolarci nella tristezza? La causa potrebbe essere una cattiva abitudine che abbiamo consolidato nel corso della vita.

Colui che viene a portarci la gioia trova la porta del nostro cuore aperta o chiusa?

Forse abbiamo paura di essere felici. Forse il mondo ha inculcato nelle nostre menti la convinzione che, per essere felici in questa vita dobbiamo avere determinati beni, e vivere in determinate condizioni e noi, pur avendo iniziato un cammino di fede, non ci siamo ancora liberati da quel modo di pensare. Forse non mettiamo Dio al primo posto perché, se lo fosse, vivremmo nella gioia, essendo Lui la nostra gioia presente e futura. Forse siamo ancora idolo a noi stessi (cioè l’io è ancora un idolo a cui dobbiamo rinunciare, per far sì che il Signore sia davvero il nostro Signore e Salvatore). Forse questa vita, in cui dobbiamo crescere nella fede, dobbiamo pure crescere nella gioia, in quella gioia che viene dal trascendente. Fede e gioia sono come due sorelle che camminano insieme.

Prima di tutto bisogna volere la gioia e parlo della gioia del Signore, che Lui, e lo leggiamo nel Vangelo secondo San Giovanni, desiderava che i suoi avessero. Desideriamo con perseveranza vivere nella gioia del Signore? Desideriamo ricevere la gioia piena che Gesù ha promesso ai suoi amici? Come l’Amore non si impone ma si dona, ugualmente la gioia non si impone ma si dona. Così opera il nostro Dio, che ci lascia totalmente liberi nelle nostre scelte.

Da cosa deriva quell’inclinazione alla tristezza e al pessimismo che alberga nel cuore di tanti cristiani? Forse la spiegazione è da trovarsi nell’egoismo. Può capitare che ci sentiamo utili quando condividiamo le sofferenze altrui e anche noi diciamo le nostre. Cerchiamo di consolare al modo detto dal proverbio: “mal comune mezzo gaudio”, ma forse non consoliamo né noi né gli altri. E poi, oltre a farci sentire utili, questo atteggiamento ci permette di parlare di noi e di suscitare l’altrui compassione. Senza rendercene conto, possiamo cercare di attirare l’attenzione su di noi.

Quando, invece, i fratelli sono nella gioia ci può risultare più difficile condividerla, perché i nostri problemi sono sempre lì, come conflitti irrisolti, che ci impediscono di partecipare alla gioia altrui. Allora ci allontaniamo e abbiamo la tendenza a crogiolarci nelle nostre tristezze. Nel nostro intimo cerchiamo mille ragioni che crediamo ci impediscano di essere felici.

Molti hanno paura di essere felici. Il Signore ci esorta molte volte nel Vangelo a non avere paura. Ma noi perché abbiamo paura di essere felici? È una paura che sappiamo di avere, oppure è tanto ben mimetizzata nella nostra mente che non ce ne rendiamo neppure conto?

Ascoltando gli altri con attenzione, possiamo constatare che è una paura molto diffusa. Forse dipende dal fatto che le nostre gioie sono state poco durature ed abbiamo paura che qualche ladro venga a rubarci la nostra gioia? Accade spesso e quindi tendiamo a nascondere il nostro “talento” e a non farlo fruttificare donandolo agli altri e rendendo testimonianza a Dio, che è il Donatore di ogni Bene.

Molto spesso sono da tenere in considerazione anche falsi sensi di colpa, che hanno il potere di oscurare la Luce che brilla nel nostro cuore. Fin dall’infanzia siamo stati abituati a sentire, non certo da tutto ciò che la Chiesa ci insegna, che ci sono colpe imperdonabili e noi abbiamo imparato a diventare giudici severi di noi stessi e degli altri.

Forse non abbiamo ancora rinnovato la nostra mente e accolto in pienezza il Perdono Divino e la Sua Misericordia. In questo caso può venire automatico un processo, magari inconscio, di proiezione. Noi non ci siamo perdonati del tutto e pensiamo che anche Dio non ci abbia perdonato completamente. Avviene che (senza rendercene conto) diamo a Dio l’immagine che abbiamo di noi stessi. Noi non siamo buoni e pensiamo che Dio non sia buono. Noi pensiamo ancora come la legge antica con quel  “occhio per occhio e dente per dente” e pensiamo che anche Dio sia così. Noi amiamo poco Dio e pensiamo che Dio ami poco noi. Crediamo di dover meritare l’amore di Dio, perché Lo crediamo simile a noi.

È esattamente il contrario di quella fede che diciamo di professare, di come Dio si rivela in Gesù Cristo. La radice del peccato non è an-cora stata estirpata dal profondo del nostro cuore e non riusciamo a credere che Dio ci ha creati a Sua Immagine e Somiglianza e che è sempre pronto a donarci la Sua Misericordia e la Sua Grazia se solo confidiamo in Lui. Infatti noi, ancora profondamente radicati nel nostro egoismo, viviamo secondo l’Immagine che ci siamo costruiti di un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza. Forse ci siamo fatti un’Immagine falsa di Dio, perché non corrisponde a quanto è scritto nel Nuovo Testamento.

Lo Spirito Santo ci illumini, ci guarisca e ci colmi del Suo Amore.

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